Tartarughe dal becco d’ascia

il 26 novembre 1984
Prima rappresentazione Milano, Cella frigorifera della Frigorifera Suburbana

di Antonio Syxty

da William H. Gass
Regia Antonio Syxty
con Francesco Paolo Cosenza, Lorenzo Loris, Daniele Demma
Con la collaborazione di Ida Travi e Nadia Campana
Scene Mauro Staccioli, Nanda Vigo e Giuliano Mauri
Musiche a cura di Roberto Brunelli
Luci Stefano Parazzoli
Produzione Teatro Out Off


«Cosa guida questi isolati verso la necessità di minacciarsi? Sembra uno scherzo, ma è sempre lei invece: la paura di essere ridotti a cosa, di non avere più niente da dire. Il protagonista è il freddo. La parola e la scrittura scenica non attenuano l’angoscia. Non viene fatto alcun dono. Soltanto un colpo rapido e il genio maligno narra attraverso meandri e capriole da tricheco. (…) Anche gli oggetti sono orfani, non servono a niente di preciso se non a funzionare da macchine da cui scatta il gioco al massacro del parlare. Il parlare che equivale al non parlare, che è tutto uno scherzo. Chi vince, chi non vince: non ha importanza. Ma permette ai personaggi almeno una condizione in cui esistere. Altrimenti non potrebbero. Li obbliga a qualcosa come cercarsi, contorcersi, inseguirsi. Soliloqui paurosi, mentre furoreggia il motivo del male. (…) Che cosa succederebbe se entrasse un raggio di luce, di vita vera, dialettica, passionale, erotica? Forse loro si dissolverebbero in pochi secondi, fissati per sempre in quella violenza decisoria, come pare succeda a certe raffigurazioni millenarie scoperte all’improvviso da un archeologo. Sono lì da sempre, da migliaia di anni,
come tartarughe».

– Nadia Campana

«Nella sala si accede all’ultimo momento, e i posti sono limitati. È un locale grigio e disadorno, dalle pareti scrostate, con una colonna in mezzo. Sotto il soffitto corrono tubi ritorti che servono presumibilmente a far calare la temperatura, ma l’impianto è spento. Quando è in funzione, dicono che la stanza divenga tutta bianca di ghiaccio come un grande igloo, un effetto molto suggestivo. Peccato. In ogni caso, è certo che non fa caldo. Anche il testo rappresentato è tutto sotto zero. I tre attori sono imbacuccati in cuffie e pellicciotti. Da quel che dicono, siamo in qualche luogo sperduto fra la neve. I tre intrecciano strane sculture di rametti d’albero, parlano di un mitico passato, di una casa lasciata chissà dove e soprattutto litigano con impegno fra loro. Siamo, insomma, nell’ambito di una drammaturgia claustrofobica, sull’aggressività e le frustrazioni da isolamento Sulle cadenze di un linguaggio ripetitivo, con strane accensioni liriche e improvvisi squarci di degrado, i tre si avventano l’uno contro l’altro per futili motivi, si scambiano alcolici, sognano donne nude, e minacciano violenze. Forse c’è un bambino morto in un sacco, ma il bambino non esiste, è l’infanzia che se ne è andata. Forse c’è un uomo giusto che si aggira lì fuori, e magari esiste anche, ha lasciato un guanto giallo. Seppure sotto zero, c’è spazio per la speranza»

– Renato Palazzi dal ” Corriere della sera”, 28 novembre 1984


«Questo Tartarughe dal becco d’ascia lo salutiamo con simpatia per il coraggio della iniziativa prima ancora che per quello che è, cioè un testo ma anche lo studio di un ambientazione, di un rapporto che vede coinvolti elementi diversi come la luce, la voce, lo spazio. Innanzitutto va detto del luogo della rappresentazione vale a dire una cella frigorifera che allude certamente alla tematica del freddo che viene più volte affermata ma che ci pare crei un’atmosfera insieme di disagio e di attesa nello spettatore. La cella era enorme, altissima, squallida nella sua nudità e nelle crepe che fessuravano il cemento a vista delle pareti. Era in questo ambiente che trovavano una loro logica corrente le tre “zone di attraversamento” di Mauro Staccioli, Nanda Vigo e Giuliano Mauri, autori non di scenografie e luci, ma dei luoghi logici cui applicare sensibilità e stati emozionali.(…)
I protagonisti, un padre e due figli, parlano di strani personaggi, di assassini resi probabilmente dall’inquietante presenza di una vera ascia. Ma non sono le parole quelle che contano, sono le tensioni che si materializzano, l’emotività quasi palpabile che si mescola a quell’odore fastidioso che hanno i frigoriferi quando stanno troppo tempo aperti e sbrinati. (…) Prigionieri di sé stessi e del proprio timore di uscire dallo spazio che non sembra però chiuso dall’esterno, i tre consumano in una ripetizione circolare il loro lento rituale».

– Roberto Mutti da “il Manifesto”, 14 dicembre 1984