Sussurri o grida

Movimenti nel nuovo teatro italiano.

Dal 9 al 24 maggio 1985
Prima rappresentazione

Milano, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale, Teatro Litta. Con il contributo di: Comune di Milano Ripartizione Cultura e Spettacolo, E.T.I. (Ente Teatrale Italiano), Ministero del Turismo e dello Spettacolo

Programma:

  • 9, 10, 11 maggio Teatro dell’Elfo
    Kaputt Necropolis
    di Società Raffaello Sanzio
  • 14, 15, 16 maggio
    Mucciana City
    di Santagata e Morganti
  • 15 maggio Teatro Nazionale
    II potere della follia teatrale
    di Jan Fabre
  • 16, 17, 18 maggio Teatro Litta
    Le piante
    di Padiglione Italia
  • 21, 22, 23, 24 maggio
    Un centimetro ogni ottanta battiti
    di Out Off



«Una chiave di lettura per orientarsi in questo panorama può essere quella “sociologica”: la scena d’avanguardia è stata negli ultimi anni il mezzo privilegiato in cui hanno trovato espressione le inquietudini e la gioia di vivere, le contraddizioni e i miti delle giovani generazioni.
La ricorrenza di certi temi e immagini assume quindi un carattere rivelatore ed emblematico.(…) Ma la scena ha offerto contemporaneamente uno spazio di riflessione e di elaborazione di queste immagini. E la nettezza e la precisione con cui si sono condensati “i segni teatrali” finisce per conferire loro un valore autonomo: riescono da soli a creare e a inventare miti, a costruire un alfabeto di immagini e suoni che conquista, semplicemente attraverso sé stesso. Il fascino che acquistano queste visioni nasce proprio dalla loro radicale coerenza, dal rifiuto di compromessi, dalla purezza di una logica che, nei casi migliori, finisce per incontrare quella dei sentimenti».

– Out Off dal catalogo della rassegna

«Qualsiasi domanda su cosa sia il teatro, sul perché esista, è destinata — come in genere le domande sull’essenza delle cose — a restare senza risposta. Eppure, al di fuori dei facili — e ormai impraticabili — canoni del teatro tradizionale, al di fuori della strabordante fabbricazione di “oggetti culturali”, molti gruppi giovanie giovanissimi hanno scelto proprio la scena per sfogare le proprie inquietudini, in una incessante autoanalisi che si è via via trasformata in comunicazione. Quello che sorprende, all’interno dell’attuale panorama della ricerca teatrale italiana, è la varietà e la diversità delle esperienze. Tutte, in qualche modo, interessanti e coerenti. Chi sceglie di uscire dal muro del silenzio, secondo un suo personale e faticoso itinerario, chi sceglie perdi più una strada solitaria e disagevole, clamorosamente “inattuale”, deve trovare ragioni profonde e necessarie. (…) Ma proprio scavando in questa direzione, cercando di scoprire quali siano i fondamenti impliciti di questo agire teatrale, è forse possibile trovare la ragione della radicale e irriducibile diversità di queste esperienze. (Diversità tanto radicale che non è più possibile — a differenza di un passato ancora recente — trovare etichette comuni, di tendenza, che non siano puramente generazionali: gli “ultimi”, i “nuovissimi”…). È il diverso modo di affrontare e superare questa condanna all’impotenza che porta a risultati così diversi: proprio nel porre il problema della necessità del proprio “fare teatro” alla sua radice prima sta la possibilità di trovare, poi, un cammino non battuto».

Oliviero Ponte di Pino dal catalogo della rassegna

«La bianca scenografia arabescata è il paradiso musulmano, dove scorrono fiumi di latte e tutto lo show è pervaso dal senso del paradiso etrusco, e cioè dalla tomba, là dove il centro dell’universo è il morto; morto circondato da cibi, giochi e oggetti artistici. Ed è proprio l’arte etrusca ad essere la chiave di volta dello show, perché è il dono che i vivi facevano a se stessi da morti.  Un aspetto che però gli Etruschi tralasciavano era quello delle ossa, della nostra impalcatura senza la quale non è possibile stare in piedi. È il morto che ci portiamo dentro che ce lo ordina. Nello show è ricordato spesso e viene presentato in modi molto brutti; le ossa sono sempre colorate e umoristiche. Tutto questo da la spinta a creare un teatro fatto di simboli inanellati fra loro come una brutta collana. (…) Il fuoco che ustiona il fuoco, il ladro che ruba ai ladri, il telefono che parla a se stesso, l’animale che ti divora da dentro, un cerchio concentrico (arabesco), un pugno ad un pugno. Questo è simbolo (…) Il linguaggio del futuro ridurrà all’osso il verbo come un cancro; il cervello deve contenere più simboli e meno vocaboli. Parla con poche parole. Sarai più capito. Fai collane di simboli: ti aprono porte. Vendi le tue collane agli altri. Non parlare come tutti. Le parole sono solo quattro per me: “agone”, “apotema”, “meteo”, “blok”».

Società Raffaello Sanzio

«Una città sepolta o un luogo forse/ mai esistito Tempesta. Tuoni e pioggia./ Gli abitanti del luogo siedono/ immobili./ Arrivano da lontano due estraneei o,/ forse, due ospiti casuali./ Nel buio e nella freddezza del luogo/ — una sorta di cimitero — entrano/ guidandosi con torce elettriche./ Questa irruzione crea lo scompiglio/ Gli abitanti del luogo ascoltano/ passivi ordini rimproveri,/ indicazioni./ Qualcuno si ribella, scappa via./ Qualcuno partecipa al gioco: i fantasmi/ prendono corpo e rivive con essi/ la memoria teatrale./ Insorgono così ricordi del melodramma/ ottocentesco./In un gioco di travestimenti gli incontri/ si moltiplicano e si intravvedono le/ ombre di personaggi shakespeariani./ Nel disordine dell’invenzione si fa/ strada l’ordine del teatro./(…) Tra tutti gli incontri e apparizioni,/ l’ultimo è quello decisivo./ L’ultima trappola./ Ritrovarsi mummificati, simili agli/ altri, alle ombre che vivono in/ questo luogo./ Il gioco della morte./ Unico modo è distruggere queste/ immagini./ (…)».

Santagata e Morganti

«Mucciana è una città fantasma, città sepolta o mai esistita, luogo isolato, casa di morti frequentata da personaggi fantasma. Con un inizio da romanzo gotico, i due attori entrano in scena e si trovano immediatamente a contatto con gli abitanti del luogo, radunati in fila, come in attesa. Cominciano a impartire ordini, intimazioni e rimproveri. I personaggi fantasma ascoltano e subiscono, alcuni si ribellano e scappano, altri partecipano al gioco. Man mano che cresce il rapporto di gioco teatrale tra i manichini-fantasma e gli attori, prende corpo  e rivive una memoria teatrale fatta di riferimenti e di richiami. (…) Lo spettacolo è costruito su rapporti drammatici che aggirano le figure dei protagonisti, ma che disegnano una sorta di romanzo shakespeariano sulle minoranze e sui “marginali” in cui primeggia una notevole sapienza dell’uso dei segni teatrali. (…) Ma  è soprattutto nella costruzione drammaturgica e nel lavoro d’attore della coppia che stanno i momenti di maggiore interesse di uno spettacolo che nulla concede al pubblico e che si chiude in storie taciute e negate di possesso e sentimento, di socialità (avvilita a livello di rapporti tra fantasmi) da combattere e da rivitalizzare con il sentimento e con una verifica continua, per non diventare fantasmi, “come gli altri”.

Stefano De Matteis dal catalogo della rassegna

«Il filo rosso dello spettacolo Il potere della follia teatrale è costituito da una favola: quella del Re nudo. E’ una favola esemplare: non si tratta tanto di un bugiardo che mente, quanto di un pubblico che vuole essere ingannato. Credo che proprio questa sia l’essenza del teatro, e in qualche modo è la base del mio lavoro, della mia estetica. Parto con reazioni finte, con la finzione: poi, ripetendo lo stesso gesto, la stessa azione dieci, venti volte, le reazioni cambiano, diventano reali. E cambia anche il significato che il pubblico attribuisce loro (…) Ci sono tre principi fondamentali dietro ai miei spettacoli: la purezza dei movimenti, la pulizia dell’aspetto visuale, figurativo, e la precisione della struttura. Ma anch’io utilizzo momenti mitologici, direi quasi sacrali, romantici. Però poi li rompo, li spezzo. (…) Odio tutta la mitologia neoromantica, e credo che questo sia un altro aspetto importante del mio lavoro: rompere l’illusione romantica. (…) L’opera d’arte deve essere aggressiva, in senso sia morale che fisico. Non ho messaggi da diffondere: si tratta piuttosto di far affiorare una mentalità, e attraverso questa mentalità si può intravvedere una visione politica. È possibile per esempio distruggere le false emozioni, i falsi sentimenti, anche quelli del romanticismo tedesco: e questa è anche un’affermazione politica».

Jan Fabre

«Nelle cinque ore de II potere della follia teatrale uno spettatore si misura inevitabilmente con se stesso, con le proprie motivazioni di teatro (certo, anche chi assiste mette in gioco dei valori). Si mette alla prova, misura il limite della propria percezione teatrale, della propria sensibilità. Già il fatto di ritrovarsi in un accadimento di così lunga durata provoca una particolare inquietudine. (…) Nello spettacolo di Fabre il senso del tempo acquista un tono di inesorabilità in più. Sulla scena molti movimenti vengono spesso ripetuti, spezzano il senso logico di una loro possibile funzione, assumono un altro valore. (…) Le scene si aprono senza senso ma precise. Strutturate dentro una geometria di movimenti. Più che una coreografia una “simmetria”. (…) Durante le cinque ore gli attori consumano le loro energie oltre ogni grado. Una cerimonia dello spreco, una fiera dell’eccesso. (…) Il potere della follia teatrale si impone come una delle prove teatrali più interessanti e affascinanti di questi ultimi anni per la sua contraddittorietà di opera lirica eppure cruda. Sfiora atmosfere wagneriane, di alta tensione drammatica e musicale, e situazioni di caos emozionale, torbide e violente, infantili ed animali. I riferimenti ad altri esempi di teatro non reggono».

Carlo Infante da “Reporter”, 15 maggio 1985

«Le piante è il poema della natura di un secolo al tramonto; è il poema dell’indimenticata irruzione della pianta in noi. Una calma sovrana comincia a prendere il posto dei flirts col disastro, e la nostalgia del linguaggio edenico ci riporta l’eco di voci assenti, dopo che tutto è stato consumato per sempre. Sotto le praterie planetarie, dietro le luci del mondo, una verde esistenza sopravvive, finta, solo nella seta dei vestiti e nelle fragranze dei profumi; ma non cessa di restituirci al giardinoideale in cui un respiro o il movimento di un muscolo del nostro corpo ci danno la misura esatta del segreto dell’esistenza. Immaginiamo il posto e il momento, appena dopo e fuori l’Eden, in cui l’esuberanza vegetale scoprì il tumulto dentro le forme umane. Ma lo spettacolo è contenuto nel punto di incontro fra il naturale e l’artificiale, nel “territorio limitato” di una serra, in cui due Amanti sfoderano il loro ventaglio di desideri, cercano l’incanto dei germogli, chiedono blazers in crepe marocain, rifiutano di imparare l’inglese sotto l’occhio impassibile di due Giardinieri».

Padiglione Italia