New Dance

Dal 26 marzo all’1 aprile 1980
Milano, Teatro dell’Elfo per la rassegna “Teatrart” in collaborazione con la Provincia di Milano

Programma:

26 e 29 marzo
Part – Contact dance
di Steve Paxton e Lysa Nelson
Musiche Robert Ashley

31 marzo e 1 aprile
Dance Music Image
di Michala Marcus e Sheryl Sutton
Musiche Ken Carter e Jacques Avenel contrabbasso
Proiezioni Odyle Pellissier


Mentre la sperimentazione si rivolge alla ricerca di nuovi spazi scenici (strade, cortili, soffitte, garage) la contaminazione linguistica dilaga. Nascono così le performance che fondono gesto, immagine pittorica o fotografica, musica e suoni, recitazione poetica. I contributi si incrociano, senza schemi o percorsi precostituiti. La danza ritrova dimensioni anti-tecnicistiche e si libera da definizioni costruttive, preferendo proclamarsi semplicemente “movement” all’insegna del recupero del “gesto rimosso”: il più spontaneo, il più elementare. Come di fronte ad un “event”, il lettore è continuamente costretto a errare fra dati simultanei che spesso non hanno alcuna relazione apparente fra loro ma che svolgono comunque il ruolo di sottolineare incessantemente la relazione circolare che presiede all’utilizzazione dei diversi materiali. La numerazione delle pagine è abolita: quasi a dire che i frammenti si ricompongono in un’armonia indipendente da progetti anteriori, e che non prevede neppure la successione temporale. (…) Attraverso questa esperienza la nostra sensibilità può essere aperta al mondo che ci circonda; ed è quanto, a mio parere, tutta l’arte contemporanea può fare.

Leonetta Bentivoglio dalla presentazione degli spettacoli


« Nella multiforme galassia della new dance americana Steve Paxton rappresenta la tendenza populista, democraticista. Dopo aver lavorato, all’inizio della carriera, con Merce Cunningham, ha portato alle estreme conseguenze una delle più famose (vere o presunte) affermazioni: “Tutto è danza”. (…) E’ venuto a Milano per presentare insieme a Lysa Nelson il suo Part, nel vuoto di un palco completamente bianco. Lui americano sulla quarantina, un paio di jeans bianchi, una canottiera viola, il volto incorniciato da una barba e segnato da un paio di occhiali da sole, la sua partner con un’ampia gonna fissata alle ginocchia, una camicetta e disegnati un paio di baffi. Ciascuno dei loro gesti mantiene un forte legame con quelli della vita di tutti i giorni, senza perdere di concretezza, e insieme tende all’astrazione: un po’ perché, nella decompressione dello spazio scenico, gli oggetti sono scomparsi e non vengono reinventati, né si allude a sensazioni o stati d’animo particolari. Un po’ perché viene messa in discussione una certa esperienza e coscienza del corpo, attraverso leggeri slittamenti: spostamenti più o meno bruschi del centro di gravità, cedimenti improvvisi delle articolazioni, fino al contatto con il terreno.(…) Il gesto quotidiano viene privato di scopo, e abbandonato alle tensioni e ai desideri che produce, per trovare l’equilibrio in pause di immobilità. (…) In sottofondo due brani registrati di “Private Lives”: la voce di Robert Ashley recita monotona il suo flusso coscienziale, su un delicato tessuto di tastiere ravvivato dalle percussioni. E come nella colonna sonora, che scorre sempre uguale a sé stessa, non c’è tensione, così nello spettacolo, ogni momento, ogni gesto, nella sua semplicità, quasi facilità, ha la stessa importanza degli altri: ancora un aspetto della democrazia in arte… ».

Oliviero Ponte di Pino da “il Manifesto”, 28 marzo 1980


« Questa performance pare scivolarci addosso, dolcemente senza incidere, ma lasciandoci spettatori passivi di un’ottima esecuzione musicale (al contrabbasso), di linee e movimenti morbidi e raffinatissimi, di interessanti immagini proiettate. Il tutto come in un disordinato affastellamento di quadri e immagini dove, al fondo, la disciplina che “ne fa le spese” è proprio la danza, che, defraudata della sua rigorosa semplicità, viene soffocata o per lo meno sembra passare in  secondo piano rispetto al resto. (…) Dance Music Image mancava di equilibrio nonostante la rigorosissima professionalità di tutti gli interpreti. Il perfetto “danzofilo” se ne esce forse un po’ insoddisfatto, anche perché ricorda, della Sutton, le splendide interpretazioni del repertorio wilsoniano ».

Paola Calvetti da “la Repubblica”, 2 aprile 1980