Produzione Teatro Out Off

Il sogno di un’uomo ridicolo

20 ottobre Cinema Teatro Boccaleone

via Capitanio, 9 Bergamo all’interno della rassegna Teatro e Cinema del Sacro

da Fëdor Dostoevskij

traduzione e drammaturgia di Fausto Malcovati e Mario Sala
regia Lorenzo Loris
con Mario Sala
scena Daniela Gardinazzi
costumi Nicoletta Ceccolini
luci e fonica Luigi Chiaromonte
consulenza musicale Ariel Bertoldo
collaborazione ai movimenti Barbara Geiger
assistente alla regia Davide Pinardi
Interventi pittorici in locandina di Giovanni Franzi

orario spettacolo: ore 20.45  

Lo spettacolo ha debuttato con successo al Teatro Out Off nella primavera 2019.

Un racconto fantastico, scritto intorno al 1876 da Dostoevskij, che riesce a parlarci ancora oggi della necessità dell’utopia proprio in un momento in cui il futuro, più che un sogno fantastico, è un incubo distopico. Per Dostoevskij l’uomo deve porsi degli obiettivi positivi perché la felicità sulla Terra può esistere e cercarla non solo ha senso, ma è forse l’unica cosa che abbia senso fare.

Nel suo percorso di questi ultimi anni, tutto incentrato sui rapporti fra letteratura e teatro, fra parola scritta per essere letta e parola scritta per essere detta, Lorenzo Loris si era già imbattuto in Dostoevskij nel 2015 con il suo lucido e sognante allestimento de Le notti bianche. Dai soprassalti emotivi dei due protagonisti di allora, da quell’intero attimo di beatitudine concesso dalla bella Nasten’ka al suo impossibile amante, ci si porta ora con questo Sogno di un uomo ridicolo a un racconto per una voce sola, in cui quell’attimo si dilata però fino a raggiungere dimensioni cosmiche, e quella beatitudine si fa redenzione. La parola, qui, è già monologante, pronta per l’uso per così dire, in un racconto tutto scritto in prima persona, con un protagonista forte, evocativo in ogni suo gesto e in ogni sua parola. Quasi a dimostrare, come l’attento e instancabile lavoro di Loris sembra volerci suggerire, che questi due mondi, letteratura e teatro, possono felicemente travasarsi l’uno nell’altro in modo quasi osmotico, e in questo trasvolare dalla pagina al palcoscenico la parola letteraria vibrare di nuove risonanze.

Dostoevskij concepisce Il sogno di un uomo ridicolo come un racconto fantastico, scritto intorno al 1876 e inizialmente inserito nel Diario di uno scrittore. Un uomo ripercorre la sua vita e le ragioni per cui si è sempre sentito estraneo alla società. Ogni interesse, ogni impulso vitale sembra in lui ormai drammaticamente destinato a esaurirsi nel nulla, quando ecco la svolta salvifica presentarglisi in forma di sogno, suggerendo un’improvvisa quanto inaspettata opportunità di riscatto. Il racconto decolla così assieme al suo protagonista, si sposta di piano e approda in altri mondi: le anguste pareti di una povera stanza in affitto esplodono letteralmente nello spazio, e una rivelazione di trascinante potenza si offre disinteressata agli occhi dell’uomo con la forza di una resurrezione per il suo corpo segnato dal dolore e dalla sconfitta. La felicità sulla Terra può esistere, e cercarla non solo ha senso, ma è forse l’unica cosa che abbia senso fare. Ora l’uomo ridicolo lo sa, l’ha vista e toccata con mano, il suo sogno gliel’ha inequivocabilmente mostrata, e ciò che si è visto c’è, non può non esserci. La sua condizione non gli è più di peso, e il tempo della sua vita ora è un tempo pieno, un tempo di parole da regalare, di semplici verità da confidare, senza patemi, a chi, casomai, tra una risata e l’altra le volesse ascoltare.

Note di regia
Un uomo qualunque sa di non essere considerato come vorrebbe, di non essere creduto: non solo, di essere addirittura costantemente deriso per ciò che pensa e dice. Dove può, quest’uomo, trovare la forza di continuare a vivere? Come può entrare in relazione con gli altri? Nel suo cuore ferito e consapevole, la vita, a poco a poco, non può che spegnersi. Perché la sua esistenza abbia un senso è necessario che qualcuno gli risponda. E’ indispensabile che quella piccola fiammella che arde dentro di lui si alimenti attraverso uno scambio di attenzione, di affetto, di amore.
Ma se tutto ciò gli viene a mancare, niente vale più la pena.
All’improvviso accade però che quest’uomo, afflitto dall’inutilità di essere al mondo, riprenda forza e vigore attraverso un sogno e ritrovi la volontà e la gioia di vivere. Ha deciso infatti di trasmettere agli altri la propria straordinaria esperienza, basata su una verità incontrovertibile, tanto semplice ed evidente da non essere vista: l’amore salverà l’umanità e ciò che la circonda.
Questo è ciò che lo stravagante protagonista vuole comunicarci. E per questo viene scambiato per un pazzo. In fondo, il testo di Dostoevskij sta tutto qui.
La nostra scelta per rappresentarlo è stata radicale. Abbiamo prosciugato ogni aspetto predicatorio, cercando di far emergere oltre che un valore religioso più universale, anche una visione profeticamente apocalittica del mondo contemporaneo su cui poter riflettere, filtrata però attraverso il candore e la simpatia del protagonista.
Sulle tavole di un teatro in disarmo, in uno spazio svuotato, uno spazio destinato alla finzione in cui non c’è più niente da fingere, assistiamo al confronto fra uno strano individuo e le sue avventurose fantasie; una specie di clown, che vorrebbe svelare una verità importante a coloro che lo ascoltano ma non intendono prenderlo sul serio. Lui ne è cosciente e ne soffre. Ma in fondo non gli importa. Basta che il suo messaggio salvifico prima o poi raggiunga qualcuno e risvegli le anime morte delle persone che incontra.
Se ponessimo, per un attimo, l’attenzione sulle piccole meschinità quotidiane che tutti noi commettiamo nei confronti degli altri, allora capiremmo quante volte perdiamo l’occasione di tendere una mano a un nostro simile in difficoltà per trasmettergli anche il più semplice gesto d’amore.
L’egoismo, la corruzione, la malvagità non sono inevitabili, il Male non è insito nella natura umana; una nuova via è possibile, una nuova umanità, in pace con se stessa e con la Terra, può nascere e prosperare. Dostoevskij sceglie, per diffondere “la lieta novella”, un uomo insignificante, un emarginato: proprio dai più umili può iniziare il riscatto.

– Lorenzo Loris


“Facciamo gesti d’amore e saremo belli”.
Dostoevskij visionario. I suoi romanzi cupi, tormentati hanno continui squarci fantastici che ci portano in altri mondi, in altre epoche, in altre dimensioni. I suoi personaggi hanno continui slanci fuori dalla loro realtà, dalla loro esistenza dolorosa, umiliata, frustrata. Spesso, è vero, siamo trascinati in incubi, angosciose immersioni nel subconscio, messaggi disperati, previsioni apocalittiche. Penso ai sogni di Raskolnikov in “Delitto e castigo”: la cavallina che viene crudelmente uccisa dal padrone, anticipazione dell’omicidio della vecchia usuraia, o l’incubo finale in cui l’umanità è distrutta da microbi micidiali fautori di follia. E ancora nei “Fratelli Karamazov” il poema che Ivan inventa per il fratello Alioscia: il Grande Inquisitore, torvo personaggio che affronta Cristo ridisceso sulla terra, lo aggredisce, lo incalza con la sua logica spietata, lo respinge. Ma ci sono anche sogni liberatori, sereni, attimi di sospensione in cui l’uomo si ritrova fuori dalla sua tormentata quotidianità e vive sospeso in una beatitudine che gli sembra irreale. Ricorrente nei romanzi della maturità è il sogno della cosiddetta “età dell’oro”, presente ne “L’adolescente”, ne “I demoni”: il sogno di un’umanità felice, in pace, senza conflitti, il sogno di una natura intatta, di un’armonia che abbraccia tutto il creato. E in questo sogno affiora il grande tema dell’amore: l’uomo, ci dice Dosotevskij, è nato per amare, per dividere con i propri simili affetto, tenerezza, comprensione. E se siamo circondati da violenze, delitti, perversioni, guerre cerchiamo anche noi di far affiorare il sogno (forse, appunto, il sogno di un uomo ridicolo) di un’altra possibilità più umana, per noi umani. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, anche noi travolti dal nostro quotidiano affanno: ma è così semplice un gesto d’amore verso chi ci sta vicino. Ecco quello che l’uomo ridicolo vuole predicare: amatevi. E lo prendono per pazzo. Non importa. Basta che il messaggio arrivi. Cadrà nel vuoto, forse. O germoglierà. E allora forse qualche frammento dell’età dell’oro si realizzerà su questa nostra terra così desolata. La bellezza salverà il mondo, ci dice Dostoevskij ne “L’idiota”: non è la bellezza esteriore, è una bellezza interiore che nasce dall’amore. Facciamo gesti d’amore e saremo belli.

– Fausto Malcovati


Due righe su “L’uomo ridicolo”
Se qualcuno mi fermasse per strada promettendo di rivelarmi la magica parola che da sola avrebbe la forza di rimettere ogni cosa in ordine su questa nostra Terra, probabilmente tirerei dritto. Sorriderei forse, per educazione, ma tirerei dritto. Lo spirito dei tempi non vede di buon occhio l’utopia. Siamo tutti orgogliosamente pieni di concretezza, di cose da fare, di fatti-non-parole. L’idea che ogni cosa possa davvero cambiare, che il mondo possa diventare molto migliore, che si possa trovare infine la felicità su questa Terra, ci appare perfino ridicola. Roba per adolescenti, per adepti di qualche nuova o vecchia religione, per visionari con la testa fra le nuvole. Forse le cose stavano già così ai tempi di Dostoevskij, o forse no. Sta di fatto che in questo racconto non c’è un tempo e non c’è uno spazio: non siamo necessariamente in Russia, nessun dettaglio la richiama al di fuori del nome dell’autore, e non si percepisce sullo sfondo una precisa epoca storica. L’uomo ridicolo potrebbe abitare ovunque e in qualunque tempo: per questo mi piace, e ci è piaciuto, pensare a lui come a qualcuno che giri tra noi, con il suo carico di sconfitta e umiliazione e il suo sogno da raccontare. Con la sua utopia da comunicare: ridicola quanto lui stesso sa di essere, ma proprio per questo più lieve e perfino meno compromettente all’ascolto.

Mario Sala

Estratti Rassegna Stampa
Quello del sogno è un leit-motiv nella poetica di Dostoevskij, che nasconde la speranza che dalla ferocia fiorisca una nuova epoca d’equità e pace. È la forza dell’utopia. La forza della regia sta invece nella scelta di Loris di aprire il sipario che nascondeva la platea. Il nostro sguardo si allarga alla sala deserta. L’uomo ridicolo fa capolino tra le poltrone vuote. Diventa credibile e serio nell’atto in cui riconosce la propria follia, e stigmatizza le brutture dell’angosciante mondo contemporaneo che ha contribuito a creare. C’è quindi il riferimento tutto dostoevskijano alla bellezza che salva il mondo. Che qui si traduce in un’ atto d’amore per il teatro, oltre che per la vita e l’umanità.

Vincenzo Sardelli, KLP

L’idea di capovolgere il senso della rappresentazione, spostando gli spettatori sul palco e lasciando in mezzo a loro lo spazio all’attore è una soluzione che ha un significato forte. Chiede allo spettatore di lasciarsi coinvolgere, di immaginare insieme all’attore questa “nuova terra” sognata, di vedere il mondo da un nuovo punto di vista, di rimettersi in discussione: quelle sedie vuote di teatro, che a un certo punto l’attore percorre in una ardita e quasi dissacrante ascesa, sono come i nostri cuori, vuoti e desolati, senza l’amore, che non è sentimento melenso ma nasce prima di tutto dal rispetto, per sé stessi, per gli altri e per tutto ciò che ci circonda.

Ugo Perugini, Il Mirino

In scena, con il protagonista, un centinaio di spettatori a platea volutamente vuota, in un rituale di tesa e commossa attenzione, come un confidente salotto di amici, mentre Sala dominava la scena, prima ironizzando sull’eccentrica natura clownesca del personaggio, più risibile che ridicolo. Ma progressivamente passando a un nucleo centrale di ispirata poesia, in un afflato di amore e d’innocenza. Forse di dolore. Togliendosi le poche ridicole bardature di clown, per passare, in scuro, a una sua coraggiosa esaltazione d’amore verso l‘umanità. Che allora non l’avrebbe capito. E che oggi gli darebbe del pazzo.

– Paolo Paganini, Lo Spettacoliere

Mario Sala un po’ uomo un po’ clown, un po’ straziante e un po’ irritante, passa dal grottesco al tragico, dalla rabbia alla all’abulia, assente e inutile, poi intenso e partecipante, attento alla gestualità che la regia di Loris ben guida e, grazie alla platea che vuota si spalanca alle spalle dell’attore, crea momenti suggestivi per un racconto profetico, potente e nitida parabola della condizione umana.

– Magda Poli, Il Corriere della Sera

Il sogno di un uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij, scritto nel 1876, è un breve, delizioso racconto fantastico qui nella bella traduzione e drammaturgia di Fausto Malcovati e Mario Sala che trova una fisionomia meno visionaria ma di maggiore dolenza e tenerezza nella nitida, semplice, efficace messa in scena di Lorenzo Loris e nell’interpretazione generosa e sapiente dello stesso Mario Sala.

– Anna Bandettini, La Repubblica


Lorenzo Loris, regista stabile del Teatro Out Off dove condivide la direzione artistica, nella sua lunga attività ha realizzato un originale percorso attraverso la drammaturgia contemporanea e del Novecento. Nel 2011 ha vinto il Premio ANCT – Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, in particolare per il suo accurato e fine complesso di messinscene pinteriane. Negli ultimi anni ha esplorato i grandi autori del Novecento, soprattutto italiani ( Testori, Gadda, Pasolini, Moravia, Calvino, Buzzati, Parise), indagando il rapporto tra letteratura e teatro. L’ esplorazione di Lorenzo Loris si è poi allargata anche ad autori del Novecento europeo che con la loro opera letteraria hanno influito fortemente sul teatro quali Dostoevskij e Schnitzler.


Mario Sala Gallini, attore, in teatro ha lavorato tra gli altri con Carlo Cecchi, Giampiero Solari, Dario D’Ambrosi, Toni Bertorelli, Massimo Navone, Andrè Ruth Shammah. Dall’assidua collaborazione con Lorenzo Loris e col Teatro Out Off sono nati, tra gli altri, gli spettacoli “Tempo d’arrivo” di Lorenzo Loris (1986), I costruttori d’imperi di Boris Vian (1992), Naufragi di Don Chisciotte di Massimo Bavastro (2002 Premio della Critica), Note di cucina di Rodrigo Garcia (2003), Bingo di Edward Bond (2004) (Premio UBU 2005 come migliore novità straniera), Terra di nessuno di Harold Pinter (2007), Il Guardiano di Harold Pinter (2010 Premio dell’Associazione Nazionale della Critica), Vera Vuz di Edoardo Erba (2013); Prodigiosi deliri (2013), dagli studi di Sigmund Freud.
E’ anche autore di libri per l’infanzia per l’editore Mondadori.


Fausto Malcovati, traduttore e critico teatrale, è stato docente di Lingua e Letteratura Russa all’Università di Milano, è uno dei massimi esperti di teatro e cultura russa. Oltre ad aver tradotto tutto il teatro di Čhecov e ad aver lavorato sugli scritti teorici dei principali maestri della regia, Stanislavskij, Mejerchol’d e Vachtangov, si è occupato di simbolismo russo, in particolare di Vjaceslav Ivanov e di Valerij Brjusov, di narrativa della seconda metà dell’Ottocento, con monografie e saggi dedicati a Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj.
Nel 2016 gli è stato assegnato il Premio speciale UBU alla carriera.