#iorestoacasa

Oggi 18 marzo 2020 sono ormai più di tre settimane che come tutti i teatri ci siamo fermati e ora siamo chiusi in casa in attesa di sconfiggere il “nemico”. In questi giorni di confusione e di paura ci siamo resi conto che “Confessioni di un roditore”, lo spettacolo che il regista Roberto Trifirò ha tratto dal racconto “La tana” di Kafka, che avrebbe dovuto essere in scena fino al 5 aprile, raccontava esattamente quello che stiamo vivendo. Abbiamo così deciso di condividere attraverso i social l’emozione di sentirci tutti dentro la tana del misterioso “narratore” di Kafka che cerca di isolarsi e di difendersi da un nemico invisibile rinunciando alla libertà. Kafka, ci fa riflettere con ironia e senso del ridicolo sulle nostre angosce più profonde esorcizzando la paura e preparandoci, con la piena assunzione della responsabilità a cui siamo chiamati tutti in questo momento, a desiderare di uscire presto e insieme agli altri dal tunnel. Questa sera alle 18.30 per la serie #entranellatana il primo appuntamento virtuale alla libreria Odradek con Roberto Trifirò che legge “Il cruccio del padre di famiglia” di Franz Kafka. Introduce Davide Pinardi. #iorestoacasa

#iorestoacasa

Stasera avrebbe dovuto debuttare all’Out Off “Confessioni di un roditore” che Roberto Trifirò ha tratto da “La tana” di Franz Kafka.
In queste ultime settimane di prove in cui lo spettacolo giorno per giorno prendeva forma ci siamo resi conto che quello che raccontava era esattamente quello che stavamo vivendo nell’emergenza nazionale del coronavirus. Ora, nell’impossibilità di poter rappresentare lo spettacolo davanti a un pubblico, vorremmo almeno condividere attraverso i social l’emozione che abbiamo provato nel sentirci tutti dentro la tana del misterioso “narratore” di Kafka che cerca di isolarsi e di difendersi da un nemico invisibile rinunciando alla libertà.
Kafka, ci fa riflettere con ironia e senso del ridicolo sulle nostre angosce più profonde esorcizzando la paura e preparandoci, con la piena assunzione della responsabilità a cui siamo chiamati tutti in questo momento, a desiderare di uscire presto e insieme agli altri dal “tunnel”.
Siamo convinti che il mondo del teatro, costretto a rinunciare in queste settimane a tanti debutti, come del resto abbiamo fatto noi nelle settimane precedenti con ben tre spettacoli cancellati, possa reagire positivamente anche con iniziative come la nostra, che servano a far riflettere e a mitigare il peso di sentirsi sotto assedio. Il teatro vive anche della sua eccezionalità e capacità di essere nel presente, e quando riesce a farlo è un miracolo per tutti.
Nelle prossime serate, a partire da quella del 10 marzo in cui era previsto il debutto, saremo presenti sui social allo stesso orario in cui era previsto lo spettacolo (ore 20.45) con una serie di “pillole” dal vivo o registrate a partire dalle immagini delle prove dello spettacolo e dal testo di Kafka (La tana).

Storia di Zhang

A proposito dello spettacolo che sarà in scena all’Out Off dal 11 al 16 febbraio

Chi decide di assistere a “Storia di Zhang” di Tullio Moreschi, opera premiata al concorso Vallecorsi di qualche anno fa e terza sua opera rappresentata (prima di questa “L’ultima commedia” e “Il cielo è sempre più blu”) si troverà di fronte ad una obbligatoria riflessione sul tema cruciale dell’indifferenza con la quale assistiamo spesso al destino di un prossimo che ci è pur vicino. Il testo propone domande attraverso dialoghi serrati, impetuosi, emotivamente  coinvolgenti. Al termine della rappresentazione ci si ritrova a confrontarsi con pensieri intensi, capaci di muovere la nostra umanità. Si viene spinti a prendere posizione rispetto a quanto visto e udito, a non restare spettatori indifferenti ai problemi che la vita propone.

Quanto accade in scena diventa traccia utile per ripensare alla propria esistenza, a come si entra in rapporto con gli altri e in cosa consiste la nostra speranza. Zhang aiuta a capire che il profondo desiderio di umanità e di verità presente nei personaggi è ciò che fa cadere l’estraneità tra gli individui e li avvicina. Attraverso il suo personaggio, l’autore evidenzia con la sua opera che anche nelle condizioni più difficili il cuore non si rassegna e, anzi, vive irrefrenabili impeti di generosa bellezza.

Gabriella Stabile Di Blasi

“Sto seguendo le prove di Storia di Zhang.Le mie parole si sono trasformate. Non più sequenza di lettere su un foglio ma immagini in movimento , risate e lacrime, musica e poesia.
Non riesco a ridurre di nuovo a semplici parole le emozioni procurate dal vedere un testo che molto amo prendere corpo e vita grazie al lavoro di un regista capace di creare atmosfere e ad attori capaci di riversarvi amore e passione .
Ho riso dove il testo rideva e pianto sulle lacrime di una attrice che ha pianto davvero sul palcoscenico.
Procurare emozioni condivise è esperienza non riferibile.
Significa che si è abbattuto il muro che separa parole e sentimenti. Significa che chi sta declamando ciò che hai scritto ha fatto sue le tue parole , le ha vissute, le ha compartecipate e farà di tutto perché altri partecipino alle sue, alle tue emozioni.
Significa che stiamo facendo Teatro con la maiuscola perché fare teatro non è salire su un palcoscenico o riempire una platea.
Il teatro è vita e la vita è lacrime e risate

Tullio Moreschi

Margaret Rose: “E’ importante che Milano metta in scena Caryl Churchill”

Intervistata in seguito all’incontro su Caryl Churchill tenutosi lo scorso dicembre presso il Teatro Out Off, Margaret Rose, accademica e drammaturga, ha sottolineato l’importanza di rappresentare l’autrice nel capoluogo lombardo.

“Questo testo è da un lato semplicissimo – ha commentato – ma è molto profondo allo stesso tempo, perché Churchill riesce sempre a scavare fino in fondo nei rapporti fra le persone. La cosa incredibile è che, anche se fu scritto nel 1982, Sleepless è ancora attualissimo.”

Sleepless. Tre notti insonni. sarà in scena al Teatro Out Off dal 14 gennaio al 9 febbraio, con Elena Callegari e Mario Sala diretti da Lorenzo Loris.

Il debutto sarà preceduto alle ore 18 da una tavola rotonda su Caryl Churchill.

Tavola Rotonda Sarah Kane 20

Erano gli anni ’90 del secolo breve, Londra salutava il governo di Margaret Thatcher  e si avviava a vivere una nuova fase. Una ragazza bionda, esile, dall’aspetto candido irrompe sulla scena teatrale inglese sconvolgendo pubblico e critica. È Sarah Kane, drammaturga  britannica, figura determinante del cosiddetto in-yer-face theatre. A vent’anni dalla sua scomparsa, il teatro Out Off in collaborazione con la Civica scuola di teatro Paolo Grassi, per celebrarne l’opera e il valore ha organizzato una tavola rotonda con giornalisti, docenti, registi ed attori  coordinata dal critico e drammaturgo Gherardo Vitali Rosati.

Ad aprire la tavola rotonda è stato il contributo video di Dimitri Milopolus, regista e direttore artistico del Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino, l’artista  ha ricordato l’incontro con Sarah Kane oltre vent’anni fa,  le prime messe in scena delle sue opere a Sesto Fiorentino, il dolore per la sua scomparsa e l’impegno a portare in scena il suo teatro.

Luca Scarlini: un teatro sciamanico, profetico, rituale.

Luca Scarlini, scrittore e performer,  ha raccontato la genesi della pubblicazione delle opere di Sarah Kane per Einaudi, tradotte da Barbara Nativi, di cui  ha curato l’introduzione.

“Il teatro di Sarah Kane è legato alla dimensione dello scandalo. Lo scandalo è una questione ambigua nella storia del teatro. Il teatro di Sarah Kane  arriva dopo l’esperienza di Martin Crimp, in epoca post Margaret Thatcher, ha tutti gli elementi per provocare scandalo.

La  Londra post Margaret Thatcher era una città punk e violenta, che accumulava sacche di povertà e rabbia molto simile alla Londra post Brexit. In questo contesto storico si inserisce l’opera della drammaturga britannica ma bisogna anche considerare il quadro non isolato in cui maturò quello che venne definito in-yer-face theatre: sono gli anni in cui scrive John Osborne e in cui venne pubblicato The romance britain, opera che aveva molto in comune con Blasted.

Blasted andò in scena in un teatro di 65 posti eppure provocò una serie di reazioni violente, soprattutto da parte della stampa. Furono, invece, molti ed autorevoli gli esponenti del teatro che la difesero: da Harold Pinter  a Bond.

La questione dello scandalo era legata al fatto che Sarah Kane fosse molto giovane e nell’Inghilterra post Margaret Thatcher  volesse lasciare un segno ma ciò significava  assumersi un rischio.

In Crave Sarah Kane scrive “un orrore così profondo può essere fermata solo da un rito”. I pensatori razionalistici  erano però  disturbati da un teatro che voleva essere sciamanico, profetico, rituale. Una profetessa giovane è destinata al rogo.

Renzo  Martinelli: tra la ferite segrete e l’ingiustizia del mondo.

Renzo Martinelli, regista e direttore artistico del Teatro i di Milano ha ricordato la propria esperienza di confronto con il teatro di Sarah Kane, insieme al’attrice Federica Fracassi in occasione della messa in scena di Sinfonia per corpi soli.

“Stavamo lavorando con Federica Fracassi ad un monologo tratto dall’opera di Sarah Kane, io ero titubante di fronte alla rappresentazione di un atto realistico, intimo e autobiografico quale quello presente in 4:4 Psychosis. Da una parte c’era la bellezza della fragilità umana, la difficoltà di scavare all’interno di una ferita così segreta e dall’altra la tensione per l’ingiustizia del mondo. Ci chiedevamo se privilegiare la sofferenza politica o quella personale, queste riflessioni ci hanno potato ad accantonare uno spettacolo quasi pronto per approdare a Sinfonia per corpi soli. Il nostro motore era un omaggio a 4:48 Psychosis.”

Monica Conti:  Il coraggio del teatro di Sarah Kane

L’attrice e regista Monica Conti ha raccontato la propria esperienza con l’opera di Sarah Kane.

“Portare in scena il teatro di Sarah Kane significa realizzare spettacoli svincolati da qualsiasi logica commerciale e ministeriale, rinunciare all’ala protettrice di qualche festival o iniziativa blasonata.

Io ho scelto di lavorare a 4:48 Psychosis perché la drammaturgia  era una forma aperta, un testo in divenire, un allontanamento da ogni forma precostituita.

Anche Crave consente di esercitare la propria creatività attoriale ed artistica. Leggendo l’opera di

Sarah Kane ci si rende conto che lei pone anche la domanda su cosa sia il teatro e cosa sia fare l’attore.”

Margaret Rose: Sarah Kane, cesellatrice della parola poetica.

Margaret Rose, docente di storia del teatro inglese all’Università degli studi di Milano e drammaturga ha parlato dell’importanza della parola nel Teatro di Sarah Kane.

“Sarah kane irrompe nel ’95 sulle scene londinesi e si segnala come novità dirompente. Scrive cinque testi, e durante la stesura  lavora  moltissimo alla forma della scrittura mentre accumula materiale. Crave è un testo di una poesia meravigliosa, privo di qualsiasi indicazione registica o di scena.  A questa libertà assoluta nella forma fa da contraltare la richiesta di fedeltà assoluta alle sue parole. Kane è stata una  cesellatrice della  parola poetica.

Laura Carretti: Sesto Fiorentino, Edimbrugo, Woyzzek. Tre modi per scoprire Sarah Kane.

Laura Caretti, docente di antropologia della performance all’Università di Siena, ha raccontato il proprio rapporto con il teatro di Sarah Kane attraverso tre messe in scene dell’opera della drammaturga britannica.

“Ho conosciuto Sarah Kane a Sesto Fiorentino, assistendo a Blasted ho avuto modo di conoscere  la difficoltà, la passione e l’emozione fortissima nel mettere in scena il testo. Ho letto il  desiderio di amore, la difficoltà di comunicare nell’opera che Barbara Nativi ha tradotto con il termine “dannati”. Il mio secondo contatto con l’opera di Sarah Kane è stato a Edimburgo con  Crave, tradotto in un primo momento di “fame” poi “febbre”. Titolo pregno di significato. Mi trovo di fronte una Sarah Kane che aveva elaborato una forma teatrale nuova, non ci sono azioni violente. Un cambiamento radicale, per lei irreversibile. Noi, invece, siamo consapevoli che quelle voci ci sono ancora. Il terzo contatto avviene  in Polonia con  Cleansed, più violento, più forte ma anche più consapevolmente pronto a dichiararsi una tragedia d’amore. La violenza del testo viene risolta con una leggerezza tragica molto più forte della violenza fisica.

#SARAHKANE20

Sulle note di Let it be dei Beatles si conclude l’intenso, appassionante ed emotivamente coinvolgente monologo di Sarah Kane 4:48 Psychosis, ultimo testo dell’autrice di BlastedPhaedra’s LoveCleansed , Crave , scomparsa venti anni fa. Le parole della drammaturga britannica vivono in scena grazie ad Elena Arvigo che da dieci anni tiene il pubblico incollato alla poltrona donando un’interpretazione magistrale, un pugno nello stomaco e una carezza all’anima degli spettatori attraverso uno dei testi piu’ controversi, assoluti e intimi del teatro contemporaneo mondiale.  4:48 Psychosis è  una partitura lirica ,una sinfonia sull’amore e sull’assenza di amore. A vent’anni dalla scomparsa di Sarah Kane ,il Teatro Out Off, per celebrare il valore della sua opera propone uno spettacolo e un percorso di approfondimento drammaturgico, in collaborazione con la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. Sarà in scena dall’8 al 27 gennaio 4:48 Psychosis, tradotto da Barbara NativiPremio Ubu 2002 proprio per traduzione e messa in scena di Sarah Kane. Lunedì 21 gennaio dalle ore 18:30 in via Salasco 4 avrà luogo una tavola rotonda di studio e riflessione sulla figura della giovane autrice a cui parteciperanno oltre all’attrice e interprete del monologo Elena Arvigo,  figure di spicco tra registi, critici ed esperti che si sono confrontati con la scrittura di Sarah Kane, tra i quali: Laura Caretti,  docente di antropologia della performance, Monica Conti, regista, attrice e didatta,  Dimitri Milopolus, regista e direttore artistico del teatro della limonaia di Sesto Fiorentino, Margaret Rose, docente di storia del teatro inglese e drammaturga, Luca Scarlini, scrittore e performer. La tavola rotonda sarà coordinata dal critico e drammaturgo Gherardo Vitali Rosati. L’incontro sarà preceduto, a partire dalle ore 10:00, da un laboratorio drammaturgico destinato agli allievi del corso Autore Teatrale. Elena Arvigo e il drammaturgo Roberto Traverso condurranno i giovani autori in un approfondimento della tecnica dello “stream of consciousness“, proprio partendo dal testo e dalla messa in scena dello spettacolo; il laboratorio è ambientato nella stessa scena di 4:48 Psychosis presso la Sala di via Mac Mahon 16. Sabato 26 gennaio, infine, un nuovo appuntamento aperto al pubblico in via Salasco, 4 dalle ore 15:300 alle 18:30 sarà dedicato alla restituzione dei testi dei giovani drammaturghi, elaborati dopo e durante il laboratorio. 4:48 Psychosis di Sarah Kane regia Valentina Calvani con Elena Arvigo scene, costumi e luci Valentina Calvani e Elena Arvigo musiche Originali  Susanna Stivali foto di scena Pino Le Pera

Ombre lunghe

Natalia Ginzburg nella postfazione al Sillabario 1 uscito nel 1972 e poi ristampato dieci anni dopo dalla Medusa disse che c’era qualcosa di importante e struggente in quei racconti destinati in origine al Corriere.

L’effetto era collegato a un uso particolare del tempo dei verbi. Parise aveva scoperto una qualità nuova dell’imperfetto che la Ginzburg definiva triste, rapido, fuggevole quasi a riprodurre la rapida corsa della vita. Era un modo questo di sottrarre i racconti alla casualità e di restituirli a un disegno letterario provvisto delle sue ragioni. In effetti nei Sillabari accade qualcosa che per metà è frutto di un calcolo e per l’altra metà una specie di allarme percettivo. Sono racconti che fanno scattare una molla misteriosa, il cui contenuto è dato da una singolare rimodulazione del passato, afferrato quasi al volo, prima che svanisca nei gorghi di una quotidianità piatta e senza significato. Ma c’è un’altra questione ed era che  su questi racconti pesava una malinconia immensa, da cui nasceva proprio quell’imperfetto che tanto aveva colpito la Ginzburg e che contiene l’idea del congedo.

Nel periodo in cui è impegnato coi Sillabari, sembra che dopo tanti successi Parise cominci a perdere fiducia sia in quello che ha scritto sia in quello che si dovrebbe o potrebbe scrivere. I tanti reportage di viaggio degli anni sessanta in qualche modo lo confermavano: quando uno scrittore si sente a corto di provviste tende a rifugiarsi nel giornalismo, non importa se letterario o di inchiesta. Lo scatto conoscitivo indispensabile ad un romanzo ad un tratto  sembra essersi infiacchito e sulle parole incombe una nube grigia e demotivante. Questo per dire che i Sillabari maturano in un quadro psicologico segnato dalla constatazione del collasso del presente e dalla scoperta che lo scrivere ha il suo limite decisivo in un fatto semplice e categorico: l’estinzione, la morte.

Il pensiero della fine, come si sa, è un potente pensiero letterario che genera angosce ma anche forza, progetti e prospettive. E però come diceva un grande critico inglese o riesci a trasformare il modello apocalittico della Fine nel modello storicistico della crisi oppure la Fine piomba sulla scrittura come un fatto cognitivamente invalicabile. Una possibilità è quella di volgersi al passato ed è quello che fa Parise che sembra scoprire di colpo che la morte chiude ovviamente qualsiasi vicenda e che su tutto, anche sullo scrivere, grava il pericolo della finitezza, dell’arresto, del naufragio. Questa minaccia introduce necessariamente in un’opera la possibilità del suo essere postuma. E questa è la strada imboccata da Parise: fare della propria scrittura qualcosa che persiste dopo la fine. I Sillabari sembrano curiosamente arrivare dall’Aldilà come testimonianza su qualcosa che è andato perduto per sempre. Leggendo sentiamo che quello che c’era un tempo non c’è più, antichi ritmi di vita, sentimenti che sono svaniti e che ci possono essere riconsegnati solo nella forma commossa nel necrologio o in quella più asciutta del lascito testamentario. Aveva ragione Raffaele La Capria a dire che in ogni racconto dei Sillabari c’è una rapida parabola della vita e che c’è in questo affrettarsi come un’angoscia, un senso di catastrofe. Anche gli istanti di felicità sono percepiti e restituiti con la consapevolezza della loro caducità. E dunque Amore, anima, estate, hotel, ecc. vanno intesi secondo me come ombre postume, fantasmi che scaricano sulla pagina un raggio di sole crepuscolare. I Sillabari sono quel che rimane di un tempo tramontato, sono un sito di rovine. E non è casuale che si interrompano alla lettera S, nel senso che il mancato compimento va inteso come una modalità essenziale del loro essere postumi.

Ricordano, i Sillabari, quella famosa sinfonia di Haydn, detta degli addii, in cui gli orchestrali depongono uno dopo l’altro lo strumento finchè non rimane nessuno.

Qual era il programma che Parise aveva in testa scrivendo questi racconti? Salvare, conservare qualcosa, anche in forma simbolica, trattenere qualche reliquia prima dell’oblio definitivo.

E dunque guardare indietro, cercare di riunire in modo disperso, dargli la chance di un significato prima che cali il sipario e la scena resti desolatamente vuota. È la STIMMUNG  malinconica dei Sillabari, che nasce da una sensazione di perdita, dalla verifica di un lutto, dal presagio dello scivolare del tempo verso un epilogo intollerabile.

C’è un istinto auto dissolutivo che si ritrova anche nell’Odore del sangue, il suo romanzo postumo ma che qui nei Sillabari quasi sempre devia verso la nostalgia. Se è così, questi racconti contengono anche la traccia di ciò che si potrebbe chiamare illusione o speranza. Col suo fardello malinconico Parise torna alla terra d’origine, all’inizio di quella cosa tremenda che gli pare la vita e alle profondità del passato sorgono figure che lo accompagnano verso un mondo preciso e affettuoso, dove l’uomo, la casa, il cane, l’albero, lo spruzzo dell’onda vivono già oltre di lui in una immortalità che la vita non può raggiungere, ma forse la scrittura sì.

Paolo Lanaro

Panizza: I Sillabari, un dizionario per rinominare e riscoprire i sentimenti.

Girava il mondo scrivendo reportage avvincenti sulle colonne del Corriere della sera, pubblicava romanzi che diventavano best seller come Il prete Bello, vinceva il Premio Strega ed era considerato a ragione un fine intellettuale ed un importante opinionista. Questo era Goffredo Parise negli anni ’70-’80 del secolo scorso. Era però anche un personaggio autenticamente anticonformista e genuinamente controcorrente e già questo basterebbe a spiegare il perché oggi sia quasi dimenticato dal mondo letterario e culturale italiano. Così ha esordito  ieri sera Giorgio Panizza, docente di letteratura all’Università di Pavia e delegato al Sistema bibliotecario d’Ateneo, introducendo con un approfondimento su Goffredo Parise la replica di Amore, Ingenuità, poesia, sogno…Sillabari.

“I “Sillabari” sono considerati il vero capolavoro di Parise, ma non bastano i Sillabari per comprendere il suo universo letterario. Il Parise reale, all’origine, è quello poetizzante del “Ragazzo morto e le comete”, c’è poi il romanzo grottesco/sentimentale “Il Prete bello”, lo scrittore pop e postmoderno de “Il Padrone” e poi c’è il viaggiatore politico in Cina, Vietnam, Biafra, Laos, Cile. Un Parise, dunque e tanti Parise, ma ancora oggi un interprete straordinario del valore della vita.Una delle ragioni per cui la ricezione dell’opera di  Parise è difficile è il fatto che oltre ad essere poliedrico lui è sempre stato controcorrente. I Sillabari fanno parte di un percorso in controtendenza nel panorama italiano di quegli anni. Pur essendo stati scritti sul Corriere come semplici prose, racconti sui sentimenti,  i Sillabari fanno parte di un progetto più ampio: se ad una prima lettura possono essere interpretati come racconti sui sentimenti umani, dal punto di vista letterario si configurano come rappresentazioni di situazioni. Ogni racconto dei Sillabari comincia e finisce allo stesso modo, seguendo una tecnica narrativa che riporta alla favola, favorendo nel lettore il processo di identificazione, dopo un processo di de contestualizzazione per giungere alla semplicità primigenia. Ogni sillabario è allo stesso tempo realistico e fantastico. L’obiettivo di Parise non è la rappresentazione della realtà ma la comprensione del reale, il pensiero del reale. Osservando la realtà del mondo contemporaneo Parise ne ricava visioni e definizioni non soddisfacenti. E allora perché non provare a cambiarla la realtà iniziando a rinominarla? È così che nascono i Sillabari, un dizionario dei sentimenti che già nel titolo porta la propria consonanza al libro elementare in cui vengono chiamate le cose per la prima volta. Vi è in ciò una chiara volontà di scrostare il reale  dalla definizione precedente.  Sono racconti dei sentimenti, in cui la bellezza della realtà diventa astratta.
Cesare Garboli definì i Sillabari romanzi virtuali, miniature della realtà, un congelamento di storia che potrebbe essere ampliata.
Non è uno schema ma il punto di arrivo di un percorso in cui il romanzo non esiste più. “

Fantasia, emozione, catarsi e multimedialità. Io sono Sarah Kane raccontato dai suoi artefici.

Quello portato in scena al Teatro Out off è il secondo capitolo di una trilogia iniziata con Io sono Salomè e che finirà con Io sono Nelson Mandela. Io sono Sarah Kane, scritto e diretto da Paolo Scheriani è un’operazione drammaturgica coraggiosa e originale, e per carpirne l’origine e le particolarità abbiamo dato voce a gli artefici della pièce: Paolo Scheriani (autore e regista), Nicoletta Mandelli e Camilla Maffazzoli (protagoniste).
Scheriani, come mai ha deciso di dedicare una pièce a Sarah Kane?
Scheriani: Perché Sarah Kane, ha speso la sua vita in modo appassionato, credendo fino in fondo che le cose si possano trasformare. Il suo teatro è una fotografia impietosa e tragica  della realtà, eppure credo che lei sia stata molto innamorata della vita e vedendo farne scempio dalla crudeltà del mondo sia rimasta ferita. Era una personalità molto sensibile, e proprio la sua empatia con il mondo deve averle causato una sofferenza lacerante. La mia scrittura è stata guidata dall’ispirazione più che da un’indagine filologica sulla sua drammaturgia, mi sono concentrato sull’aspetto umano immaginando cose che probabilmente non sono successe.
Nicoletta e Camilla, due attrici che dividono non solo la scena ma anche il personaggio. In Io sono Sarah Kane vi alternate nel dar voce alla protagonista della pièce. Come avete affrontato questa esperienza?
Nicoletta: Nel nostro percorso artistico abbiamo sempre guardato all’ eroismo delle persone comuni che decidono di vivere fino in fondo la loro passione, e Sarah Kane fa parte di questa categoria. Per noi è stata un’ amica, compagna di viaggio, una di noi, perché come noi fai il teatro mettendoci dentro tutta se stessa. Il testo è stato suddiviso in maniera apparentemente casuale, in realtà man mano emerge una dimensione spirituale nella mia interpretazione e una più carnale in quella di Camilla.
Camilla: È stata un’occasione per raccontare una storia, immaginando anche momenti particolari della vita di Sarah Kane come la scena del ballo o dando voce al suo pensiero sulla critica, che in parte è anche il nostro. È stata un’esperienza molto forte dal punto di vista emotivo, entrare nella sensibilità di questa giovane donna e creare un rapporto diretto con il pubblico, con la scena finale che è una sorta di catarsi, in cui invitiamo gli spettatori sul palco.
Nello spettacolo sono presenti proiezioni video curate da Luca Lisci, che ruolo hanno avuto nell’impianto drammaturgico?
Scheriani: La collaborazione con Luca Lisci va avanti da diversi anni, abbiamo realizzato insieme diversi lavori.  Ha un immaginario molto vicino al nostro, e le sue clip  sono parte integrante della drammaturgia, non si pongono come un accessorio. In questo caso i video ripropongono le protagoniste, attraverso la ripetizione e l’amplificazione del corpo delle attrici.