Ombre lunghe

Natalia Ginzburg nella postfazione al Sillabario 1 uscito nel 1972 e poi ristampato dieci anni dopo dalla Medusa disse che c’era qualcosa di importante e struggente in quei racconti destinati in origine al Corriere.

L’effetto era collegato a un uso particolare del tempo dei verbi. Parise aveva scoperto una qualità nuova dell’imperfetto che la Ginzburg definiva triste, rapido, fuggevole quasi a riprodurre la rapida corsa della vita. Era un modo questo di sottrarre i racconti alla casualità e di restituirli a un disegno letterario provvisto delle sue ragioni. In effetti nei Sillabari accade qualcosa che per metà è frutto di un calcolo e per l’altra metà una specie di allarme percettivo. Sono racconti che fanno scattare una molla misteriosa, il cui contenuto è dato da una singolare rimodulazione del passato, afferrato quasi al volo, prima che svanisca nei gorghi di una quotidianità piatta e senza significato. Ma c’è un’altra questione ed era che  su questi racconti pesava una malinconia immensa, da cui nasceva proprio quell’imperfetto che tanto aveva colpito la Ginzburg e che contiene l’idea del congedo.

Nel periodo in cui è impegnato coi Sillabari, sembra che dopo tanti successi Parise cominci a perdere fiducia sia in quello che ha scritto sia in quello che si dovrebbe o potrebbe scrivere. I tanti reportage di viaggio degli anni sessanta in qualche modo lo confermavano: quando uno scrittore si sente a corto di provviste tende a rifugiarsi nel giornalismo, non importa se letterario o di inchiesta. Lo scatto conoscitivo indispensabile ad un romanzo ad un tratto  sembra essersi infiacchito e sulle parole incombe una nube grigia e demotivante. Questo per dire che i Sillabari maturano in un quadro psicologico segnato dalla constatazione del collasso del presente e dalla scoperta che lo scrivere ha il suo limite decisivo in un fatto semplice e categorico: l’estinzione, la morte.

Il pensiero della fine, come si sa, è un potente pensiero letterario che genera angosce ma anche forza, progetti e prospettive. E però come diceva un grande critico inglese o riesci a trasformare il modello apocalittico della Fine nel modello storicistico della crisi oppure la Fine piomba sulla scrittura come un fatto cognitivamente invalicabile. Una possibilità è quella di volgersi al passato ed è quello che fa Parise che sembra scoprire di colpo che la morte chiude ovviamente qualsiasi vicenda e che su tutto, anche sullo scrivere, grava il pericolo della finitezza, dell’arresto, del naufragio. Questa minaccia introduce necessariamente in un’opera la possibilità del suo essere postuma. E questa è la strada imboccata da Parise: fare della propria scrittura qualcosa che persiste dopo la fine. I Sillabari sembrano curiosamente arrivare dall’Aldilà come testimonianza su qualcosa che è andato perduto per sempre. Leggendo sentiamo che quello che c’era un tempo non c’è più, antichi ritmi di vita, sentimenti che sono svaniti e che ci possono essere riconsegnati solo nella forma commossa nel necrologio o in quella più asciutta del lascito testamentario. Aveva ragione Raffaele La Capria a dire che in ogni racconto dei Sillabari c’è una rapida parabola della vita e che c’è in questo affrettarsi come un’angoscia, un senso di catastrofe. Anche gli istanti di felicità sono percepiti e restituiti con la consapevolezza della loro caducità. E dunque Amore, anima, estate, hotel, ecc. vanno intesi secondo me come ombre postume, fantasmi che scaricano sulla pagina un raggio di sole crepuscolare. I Sillabari sono quel che rimane di un tempo tramontato, sono un sito di rovine. E non è casuale che si interrompano alla lettera S, nel senso che il mancato compimento va inteso come una modalità essenziale del loro essere postumi.

Ricordano, i Sillabari, quella famosa sinfonia di Haydn, detta degli addii, in cui gli orchestrali depongono uno dopo l’altro lo strumento finchè non rimane nessuno.

Qual era il programma che Parise aveva in testa scrivendo questi racconti? Salvare, conservare qualcosa, anche in forma simbolica, trattenere qualche reliquia prima dell’oblio definitivo.

E dunque guardare indietro, cercare di riunire in modo disperso, dargli la chance di un significato prima che cali il sipario e la scena resti desolatamente vuota. È la STIMMUNG  malinconica dei Sillabari, che nasce da una sensazione di perdita, dalla verifica di un lutto, dal presagio dello scivolare del tempo verso un epilogo intollerabile.

C’è un istinto auto dissolutivo che si ritrova anche nell’Odore del sangue, il suo romanzo postumo ma che qui nei Sillabari quasi sempre devia verso la nostalgia. Se è così, questi racconti contengono anche la traccia di ciò che si potrebbe chiamare illusione o speranza. Col suo fardello malinconico Parise torna alla terra d’origine, all’inizio di quella cosa tremenda che gli pare la vita e alle profondità del passato sorgono figure che lo accompagnano verso un mondo preciso e affettuoso, dove l’uomo, la casa, il cane, l’albero, lo spruzzo dell’onda vivono già oltre di lui in una immortalità che la vita non può raggiungere, ma forse la scrittura sì.

Paolo Lanaro